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Sebastiano Gubian e Carlotta Baradel presentano il laboratorio Sinestesia

a cura di Omar Manini

È sempre utile ricordarlo, raccontarlo, mostrarlo. Soprattutto quando tentano di farci credere che staccare, scollare, dividere, separare sia una soluzione. L’unione non solo fa la forza, ma impreziosisce la sostanza regalando occasioni di conoscenza, di scoperta e, molto spesso, di meraviglia. Questo vale sia nelle innumerevoli combinazioni della vita sia nell’arte.

Sinestesia, progetto per ERT FVG teatroescuola, porta i ragazzi a toccare con mano come e quanto i linguaggi possano esprimersi al meglio dall’incontro tra molteplici forme espressive, che in questo caso si sostanziano nella musica e nelle arti visive.

Ne abbiamo parlato con i curatori: il pianista Sebastiano Gubian e l’artista Carlotta Baradel.

Sinestesia è …

S.: Il progetto nasce qualche anno fa dall’idea di coniugare due esperienze artistiche – musica e arti visive – che sono spesso state considerate come separate, ma che, in realtà, sono molto affini come testimonia lo spettacolo dal vivo contemporaneo che le utilizza insieme, nella stessa rappresentazione. In particolare, volevamo riflettere su come la percezione dell’arte è cambiata negli ultimi anni e come la multimedialità ci abitua fin da piccoli a percepire musica e immagine in una stessa rappresentazione. Quindi ci siamo rivolti alle scuole proponendo una serie di laboratori e la partecipazione attiva allo spettacolo Sinestesia, creato appositamente.

C.: È anche un’occasione per formare questi giovani a essere il pubblico del futuro. Il mondo del teatro e dello spettacolo è sempre stato visto come qualcosa di lontano, esterno, da sognare, ma non da toccare. Noi vogliamo sdoganare un modo di intendere il teatro come un’occasione tangibile e possibile. E lo facciamo avvicinando i contenuti del teatro ai ragazzi, nelle scuole, facendoglieli toccare, facendo capire cosa significhi mettere in scena uno spettacolo, avere una fruizione interna dell’arte per osservarne il processo, i meccanismi.

Musica, pittura, arti visive alla fine, nello sguardo e nella mente, diventano un movimento che potrebbe anche essere inteso come una “danza”?

S.:  Danza è proprio il tema di quest’anno e possiamo considerarla come l’archetipo del processo nell’arte. Il concentrarsi sul processo, e non sul risultato, è qualcosa di caratteristico anche della musica. Molto spesso i compositori sembrano mostrarci una ricerca nelle loro composizioni, più che il risultato finito e compiuto. Pensiamo ad esempio alle ultime sonate di Beethoven: ci sono dei punti in cui sembra una ricerca nel buio e una sorta di momento quasi improvvisativo. Questa dimensione processuale, che è anche della danza, volevamo trasferirla sull’opera d’arte visiva in modo da rompere la concezione di una fruizione del solo oggetto-risultato.

Qual è stato l’approccio con i ragazzi?

C.: Quello che dall’inizio mi sono posta come obiettivo è quello di riuscire a coinvolgere i ragazzi in modo partecipe, anche attraverso attività pratiche; riuscire a farli entrare nel vivo del laboratorio e farli ragionare, esprimere, ascoltare, reinterpretare attraverso il disegno quanto ascoltato.

Avete parlato di una convenzionalità nell’essere spettatore; andare a teatro, solitamente, è godersi un prodotto. Voi aprite le quinte e ne mostrate il retro. Com’è cambiata negli ultimi anni la percezione dell’arte in questo tempo prevalentemente digitale?

S.: L’arte è sempre stato un indicatore per capire a che punto è la nostra percezione umana sulle cose. Per costruire il progetto ci siamo basati su alcuni capolavori della storia del pensiero, come il saggio di Benjamin sulla riproducibilità tecnica. Il cinema e la fotografia si sono inscritti in una sorta di crisi e cambiamento dell’arte e della percezione umana. Lo stesso discorso potremmo farlo sull’arte contemporanea, pensiamo ai grandi dibattiti e alle riflessioni come quelle di Maurizio Ferraris, che si occupa del medium digitale come meccanismo di registrazione. E di come la nostra percezione richieda diversi tipi di stimoli. Personalmente credo che, in certe aree europee, lo spettacolo dal vivo sia indietro in questa ricerca e offra ancora, pur nella qualità artistica, forme e metodi di fruizione anacronistici. Per alcune opere servirebbe una fruizione diversa, non quella classica distante e contemplativa che abbiamo solitamente a teatro. Proprio nel teatro ci sarebbe la possibilità di ripensare a questa fruizione. E pensarla con menti sgombre da pregiudizi come quelle dei ragazzi è la cosa migliore. Perciò noi andiamo dove le menti sono più libere, per rendere abituale ciò che una persona che va già a teatro potrebbe sentire come non abituale.

C.:  Ci rendiamo sempre più conto chel’uomoha la necessità di vivere un’esperienza, perché non gli basta andare al museo per guardare una semplice opera. Sentiamo come necessario, quindi, creare un’esperienza che venga assimilata e ricordata nel suo momento. Non è importante solo l’osservazione dell’opera, ma l’emozione, il percorso, le sensazioni avvertite. Quindi, dirti che cos’è l’arte diventa impossibile perché ci sono mille sfumature diverse, personali. Inoltre, con lo sviluppo del metaverso, siamo in una realtà totalmente digitale che fino a qualche anno fa era impossibile. È difficile trovare una metodologia contemporanea, ma va cercata per esporre quello che non si vede: l’esperienza.

Avete avuto qualche difficoltà nel dialogare con i ragazzi per questo percorso?

S.: Io trovo più facile lavorare con i ragazzi su questa tematica. Negli anni abbiamo adattato il target degli studenti andando a classi sempre più giovani. Noi parliamo di musica a 360° e l’unica resistenza è data dagli eventuali vincoli imposti da una catalogazione preesistente. Altrimenti il bambino la recepisce per quello che sente, senza dover corrispondere a nulla, in maniera spontanea. E riesce ad accogliere anche la musica contemporanea con estrema facilità, cosa che spesso non avviene negli adulti.

C.: Questo approccio sensoriale/primordiale avviene molto bene fino a una certa età perché poi, almeno dall’adolescenza, i ragazzi diventano più restii a lasciarsi andare.

Portare il laboratorio nelle scuole può essere la via per indicare l’importanza delle espressioni artistiche come tappa educativa. Può essere visto come un laboratorio per immaginare una nuova idea di educazione scolastica?

S.: Sicuramente la didattica dell’arte, della musica in particolare, in Italia soffre di un mancato aggiornamento e di uno sguardo non internazionale. Quindi vorremmo far capire che è necessario aprirsi alle novità e da esse, e non prima di incontrarle, derivare una pedagogia. Il modello che suggeriamo parte dalla prassi e dalla sensorialità, che in un Paese ricco di cultura e teoria come il nostro viene trascurata. Ecco vogliamo almeno stimolare la riflessione.

C.: Quello che manca nella scuola italiana è un approccio più stimolante, più pratico perché siamo ancora fermi alle classiche lezioni passive che ti fanno perdere la curiosità verso l’esterno, verso gli stimoli del mondo. Vorremmo insinuare l’importanza di un’educazione che sia in linea con il mondo di oggi: più digitale, più veloce, più pratica, più attiva.

Scarica la scheda di Sinestesia 22.23

a cura di Sebastiano Gubian e Carlotta Baradel / Simularte (UD)

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