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Gioele Dix @ teatroescuola

La voce calda, pastosa; sembra d’ascoltare il fuori campo di un noir anni ‘50 che introduce un fumoso pianobar carico di oscuri presagi. Sarà la deformazione del mio immaginario cinefilo?

Probabilmente sì, perché, invece, sono al cospetto di una persona piacevolissima, pacata e spontanea, un attore che ha portato ad altissimi livelli la comicità negli ultimi trent’anni: Gioele Dix.

Dopo gli studi e la gavetta, la popolarità gli giunge raccontando con piglio “incazzato” le sue disavventure alla guida. Divenuto un simbolo della risata, in parallelo ha coltivato la fortunata carriera televisiva (Mai dire gol, Zelig, svariate serie) e una bellissima carriera teatrale a fianco di mostri sacri. Dal 2009 si dedica anche alla regia di molti spettacoli di successo.

David, alias Gioele, due nomi per una persona e moltissimi personaggi. In realtà chi sei?

Sono un pensatore solista che ha bisogno di raccontare le sue idee al pubblico. Mi sento costituzionalmente un attore, mi dicono che volevo farlo già da piccolissimo. Il mio desiderio non è tanto quello di esibirmi, quanto quello di trasferire agli altri i miei pensieri, le cose su cui rifletto quando osservo il mondo. Mi piace lo scambio, tant’è vero che più recentemente ho desiderato fortemente fare scambi culturali con il pubblico che mi segue (sui social, nda), leggendo pagine di autori e letteratura che mi piace. Sono un solista, uno spirito individualista, ma come tutti ho necessità del rapporto con il prossimo.

Vista la tua innata passione, ti sei dedicato al teatro subito dopo la maturità oppure prima hai tentato altri percorsi?

Mi sono iscritto a psicologia e purtroppo non l’ho finita, lasciandomi un grosso rimpianto perché è un mestiere che mi sarebbe piaciuto fare. Subito dopo ho cominciato lavorando come attore in una compagnia che faceva spettacoli per i bambini delle scuole elementari e materne. Ho cominciato con il pubblico apparentemente più facile, ma in realtà è quello più difficile… Poi ho avuto la fortuna di lavorare con grandi attori, come Franco Parenti che mi ha fatto da maestro.

Tanti dei tuoi colleghi mi parlano dei bambini come un pubblico molto complesso…

Sì, sono molto esigenti e ti costringono a stare dentro al recinto, a non tradirlo neanche un momento. Noi andavamo nelle scuole, nelle palestre, nelle aule magne, nei piccoli teatri di provincia… una volta ci pagarono con una colletta di sole monete in un sacchettone. Era un teatro molto artigianale e mi ricordo che era molto bella l’attenzione che c’era, e il grande silenzio alternato alle urla. E l’applauso finale!? Era commovente perché i bambini hanno delle mani piccole, non è come quello degli adulti, è una specie di crepitio, fsccccc (ne imita il suono, nda), sembra la pioggia sul tetto. Era bello e ho una grandissima nostalgia di quei momenti e non solo perché avevo ottant’anni di meno (ride, nda), ma perché era una palestra che mi ha dato elementi che ho sempre usato. Uno scrittore francese diceva che, quando lavori con i bambini, occorre precedere la loro impazienza. Devi essere sempre un passo avanti ed è anche quello che muove i comici che devono essere pronti all’imprevisto, attenti, rapaci, pronti alla battuta fuori copione.

La tua fama è arrivata a fine anni ’80. Da quel momento il tuo approccio al teatro è cambiato?

No, è cambiato semplicemente il fatto che improvvisamente c’era tantissima gente che veniva a vedermi. Quindi è aumentata la responsabilità! Io non ho cambiato atteggiamento, anzi, sono diventato ancora più rigoroso perché avevo imparato dai maestri che ogni sera l’impegno doveva essere massimo. Il patto con il pubblico va rispettato in ogni piazza e in ogni recita, da Latisana a Monfalcone a Milano… solo così, dopo tanto tempo, vieni ripagato e ottieni la credibilità, coltivi il pubblico e attraversi anche le generazioni.

Dev’essere un motivo d’orgoglio sapere di aver seminato così bene ed avere un tuo pubblico, fatto di madri, padri e figli!

Sì, sì è una cosa importante! In questo momento di chiusura per il virus, il fatto di non fare più spettacoli, malgrado la fiducia non manchi, ti fa cadere la terra sotto i piedi, ti senti disarmato! Io ho fatto anche la televisione, faccio audiolibri, ci sono tante cose che puoi fare e, a questo punto della carriera, il mio problema non è morire di fame… però il teatro è la mia fonte di entusiasmo, piacere, capisco ancor di più quanto sia importante il contatto, vero, con il pubblico.

Hai frequentato i classici e poi ti sei consacrato alla comicità; una scelta voluta o un’occasione spontanea?

È stato un percorso a zig zag, ma in realtà ho sempre fatto cose comiche, mi venivano meglio. Anche nei classici facevo le parti brillanti, la mia tendenza era questa. Certo, quando ho iniziato a fare le mie cose ho spinto di più il pedale sulla parte comica. Comunque, comico e tragico sono molto contigui, non ci vedo questa differenza.

Tant’è vero che molti comici, quando fanno parti drammatiche, sono straordinari perché sono molto più essenziali, capaci di giocare con le parole, di dargli valore. Negli anni sto imparando a fare tutto sempre con meno. Ad esempio, sul set di un film ho conosciuto Giorgio Albertazzi che negli ultimi vent’anni di carriera era arrivato ad una essenzialità sbalorditiva, bastava salisse sul palco per riempirlo, era incredibile! Con la sua prodigiosa memoria poteva recitare qualunque monologo, ma lo faceva come se ti stesse raccontando le vacanze appena fatte… aveva abbandonato ogni maniera, ogni birignao del passato.

Dalle tue parole emerge nitidamente che fare l’attore, per te, è un atto d’amore. In tutte le relazioni amorose, però, non mancano parentesi di stanchezza, a te sono mai capitate?

Guarda, la stanchezza è data più che altro dalla ripetizione. È difficile da spiegare… ma anche no, è anche semplice… è il segreto e la dannazione del teatro. Tu devi ripetere per un lungo periodo, sera dopo sera, le stesse cose, con la stessa energia. Ecco, a volte, può essere faticoso. Certo lo spettacolo, di per sé, è una bellezza e io ancora oggi vado in scena molto felice, anzi è una specie di narcotico! Posso avere la febbre, tristezze varie, ma quando vado sul palcoscenico dimentico tutto e per due ore è come se mi avessero fatto l’anestesia. Ecco, più che altro può essere faticoso tutto quello che c’è intorno, spostamenti, alberghi, ristoranti, traffico, camerini freddi, teatri brutti. Qua e là ho fatto un po’ di fatica su questo, ma poi, adesso che siamo fermi, ho nostalgia anche dei teatri brutti! Per esempio, ogni tanto mi sorprendo a pensare al baretto sfiato, davanti al teatro “x”, dove ero andato a prendere un tè di pessima marca prima di andare in scena e mi dico “però, dai, non era così male!”

I personaggi che porti a teatro ti assomigliano?

In parte sì, diciamo che in scena porti sempre qualcosa di te, ma porti anche qualcosa dei personaggi in te. Certi personaggi ti cambiano, ti obbligano ad ispezionarti dentro e a scoprire cose che non pensavi. C’è un travaso tra le cose… certamente è divertente interpretare cose che proprio non ti appartengono, anche se in realtà tutto ci appartiene, magari segretamente.

Il teatro è fatto di voce, musica, movimento. Oggi che siamo costretti all’assenza, a che punto si trova il teatro?

Io ho cominciato con le primissime cose nel 1978 e già nei primi mesi sentivo dire che il teatro era in crisi. Poi ho conosciuto attori più vecchi di me che mi dicevano che quando avevano iniziato loro il teatro era dato per morto. Praticamente siamo sempre dati come moribondi, aspettiamo solo il prete… certo bisogna cambiare pelle, il teatro deve rinnovarsi perché il pubblico è cambiato, si è trasformata l’attenzione… ma resistiamo comunque, anche in un Paese che non considera cultura e arte ai primi posti. Bada, il teatro, non deve preoccuparsi di inserire l’attualità, è un modo di leggere le cose, la vita… e quindi è fisiologico che sia sempre in crisi perché è la vita stessa che è una crisi continua.

Stiamo vivendo agli estremi emotivi, in altalena tra buonismo e cinismo, ottimismo e pessimismo. Come riesci a trovare un tuo baricentro emotivo?

Mi sono dato, quasi da subito e istintivamente, un compito che era quello di cercare di tenere i nervi saldi. All’inizio non ci si credeva tanto, sembrava un gioco, ma io ho capito che sarebbe stata una prova di forza… ho cercato, e finora ci sono riuscito, di organizzare bene le attività delle mie giornate. Non mi sono certo annoiato, ho fatto molte cose e curato la mia numerosa famiglia. Ora sento un po’ la stanchezza di mantenermi saldo, è una faticata! Sono dimagrito, ho fatto il contrario di quello che hanno fatto molti! Non appena si potrà, in attesa di tornare al mio terapeutico mestiere, andrò da qualche parte a urlare, a sfogarmi… e cercherò, con tutto me stesso, di non rigare le macchine del condominio! (risata, nda)

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